…..Quale fosse il sentimento della popolazione alla vigilia e durante la tragedia, ce la racconta nel suo diario il pievano di Pontebba, don Silvio Beorchia:
Aprile 1915. Santino con la preghiera per la pace di Papa Benedetto IV°
“””1915 – Anno della guerra europea
“E’ l’anno più burrascoso che si possa immaginare. Esso trova l’Europa in fiamme: Austria Germania e Turchia combattenti da cinque mesi contro la Russia, l’Inghilterra la Francia, la Serbia, il Montenegro ed il Belgio.Le cause? Prevalenza di dominazione fra l’Austria e la Russia, rivalità per la dominazione dei mari e delle industrie – commercio fra Germania e Inghilterra. L’Italia che si era dichiarata neutrale fin dal principio della guerra, si venne preparando al conflitto per non trovarsi in un grado di inferiorità un altro giorno, e le sue relazioni con l’Austria si fecero sempre più tese specialmente per la causa degli italiani soggetti all’impero austro ungarico.
Pertanto l’opinione pubblica veniva formandosi favorevole alla guerra, specialmente per opera dei giornali più letti e dei profughi triestini, coordinati nelle grandi città dalle agitazioni studentesche. Con il mese di maggio, il mese primaverile dei fiori, all’orizzonte il nero dell’uragano che doveva scoppiare. Gli eventi precipitarono ed il 20 maggio la camera convocata votò i pieni poteri al governo.”””
I due paesi vengono sgomberati in tutta fretta, non c’è tempo e bisogna abbandonare tutto, viene consentito di portare con se solo un sacco o una valigia, le case contenenti tra l’altro i ricordi più cari verranno irrimediabilmente perdute, molti non torneranno più.
“””La popolazione di Pontebba aveva già cominciato ad allontanarsi. Il personale addetto alle ferrovie ed uffici pubblici, aveva spedito verso luoghi più lontani dal confine i loro mobili. Lo sgombero avvenuto di tutta la popolazione di Pontafel per ordine superiore impressionò di più i Pontebbani, ma siccome non arrivava nessun ordine da parte delle autorità, si confidava che il pericolo non esistesse e fosse esagerato, invece la mattina del 21, mentre mi trovavo ancora a letto, mi capitò in camera costernato il (sagrestano?)… Giacomo Brisinello e mi disse: Brutte nuove Sior Plevan! E mi raccontò che la pubblica sicurezza s’aggirava per le case ordinando di far partire in giornata, ammalati, vecchi, donne e fanciulli e soggiungeva che si voleva distruggere Pontebba perché la popolazione aveva fatto troppo spionaggio e contrabbando a favore dell’Austria. Questo era una creazione della fantasia popolare, mi alzai e fatto un giro per il paese, già mezzo deserto, mi accertai dell’ordine di partire.
Allora ritornato a casa ordinai alle suore di trasportare nelle cantine i letti e le masserizie più importanti. Così alla rinfusa si trasportò in cantina quello che capitava tra le mani: letti, coperte, stoviglie, libi, registri parrocchiali ecc. alle 9 del mattino feci partire le suore e mio padre.
Alla stazione era un pigiarsi, un piangere, un salutarsi nella completa incertezza dell’avvenire. Rimasi in casa fino l’indomani 22 maggio.
Alla mattina celebrai l’ultima messa nella chiesa parrocchiale e consumai le S. Specie. Rimaneva con me D. Pasquale Michieli. Alla messa assistettero cinque uomini che parevano decisi a rimanere ad ogni costo a Pontebba, ma alle ore 13 il delegato avvertì don Pasquale che entro un’ora tutti dovevano trovarsi alla stazione, perché vi partiva l’ultimo treno. Allora in fretta e in furia facemmo un po’ di fagotto e via alla stazione.
Io che avevo i polmoni in disordine feci una fatica indescrivibile a trascinarmi col mio sacco fino alla stazione. Così alle ore 15 pomeridiane Pontebba restava completamente svuotata e con la speranza di poter in breve, dopo il trionfo delle nostre armi, ritornarvi, si partì.
Al casello di Pietratagliata il treno vi fermò per raccogliervi quegli abitanti che pure avevano avuto l’ordine di lasciare il paese. Dove si andava? Nessuno lo sapeva. Io avevo pensato di andare fino a Resiutta; la gente andava a Moggio, a Gemona, a Udine,ecc., al primo paese che li avesse accolti. Chi aveva bestiami aveva procurato di partire prima, altri (nelle frazioni) vollero rimanere, sperando di potersi salvare nella stalla oppure fra i monti; ma più tardi dovettero essi pure abbandonare i cari luoghi.
A Chiusaforte il treno si fermò e fummo avvisati che bisognava attendere quattro ore per proseguire; allora pensai di fermarmi a Chiusaforte e di chiedere ospitalità al Pievano Don Pietro Foramitti per me e per Don Pasquale. Infatti fummo accolti a braccia aperte e quivi fissammo la nostra dimora.
Il 23 di sera alla sella Nevea si udirono i primi colpi di cannone: gli austriaci si fecero sentire dal forte del Predil tirando contro le nostre posizioni della sella di Nevea. I nostri non risposero, ma le ostilità erano aperte.
Nel partire da Pontebba ero preoccupato in modo speciale della sorte dell’altare monumentale che rimaneva esposto alla …civiltà del nostro nemico. Ne avevo parlato nei giorni precedenti a generali ed ufficiali superiori che avevo avuto l’onore di avvicinare. Io non avevo potuto toccarlo per varie ragioni; dove dovevo trasportarlo? Con quali mezzi? E non era sotto la responsabilità della commissione per la conservazione dei monumenti?
Fui avvicinato nella vettura che mi portava a C.forte da un capitano d’artiglieria, il quale mi domandò chiarimenti in proposito e mi promise, che si sarebbe occupato per mettere al sicuro il monumento. Infatti l’indomani i soldati d’artiglieria forzata la porta della Chiesa, perché le chiavi le avevo io, riuscirono a caricare l’altare sopra un camion e trasportarlo fino a Dogna. Donde poi fu trasportato al museo di Udine per cura degli incaricati alla conservazione dei monumenti.
A Chiusaforte era un grande movimento di carri, di soldati, di cannoni, di munizioni. Il 24 maggio si ebbe notizia che le principali case di Pontebba erano state aperte. Da chi? Mistero! Bisognava staccare completamente il cuore da tutto quello restato nelle nostre case. La nostra diventava roba di tutti, o meglio del primo occupante. Ma il bene privato deve cedere al bene pubblico, perciò non bisogna lamentarsi.
Giunse notizia che le nostre truppe avevano occupato Cormons e che s’erano spinte senza trovare certa resistenza, fino a Gorizia e Gradisca. Molti tripudiavano e si ripromettevano in pochi giorni di arrivare a Trieste. So che non mi lascio trasportare dai facili entusiasmi, facevo osservare che gli austriaci ci aspettavano sulle rocce del Carso, che il difficile era snidarli da quelle posizioni: dicevo questo il 25 maggio, purtroppo la resistenza del nemico sul Carso superò anche le mie previsioni.
Il 5 giugno il Pievano di Chiusaforte, quello di Dogna ed altri sacerdoti furono avvisati che l’autorità militare voleva che si allontanassero essendo risultati sospetti dalle inchieste fatte per la sicurezza dell’esercito; ed essi partirono senza che fosse loro concesso di giustificare la loro condotta. Io fui incaricato dall’arcivescovo di reggere la parrocchia: ma la mia salute non mi permetteva di occuparmi come sarebbe stato necessario e fu una fortuna per me l’avere un valido aiuto in Don Paolo Faleschini ed in Don Pasquale Michieli, che realmente lavoravano, mentre io dovevo starmene in riposo.
I giorni che passavano erano pieni di emozioni: un giorno capitarono otto o dieci persone arrestate per spionaggio, un altro erano alcuni soldati austriaci fatti prigionieri, un giorno passavano i cannoni da 305, un altro era S.M. il Re che andava ad assistere ai primi colpi sparati da Dogna contro il forte di Malborghetto.
L’eccitazione poi delle fanterie inventava fatti, scontri, vittorie ecc. che era un affare piuttosto serio a conoscere la verità anche di cose che succedevano da vicino; onde venne proprio in buon punto l’ordine di non raccogliere e di non divulgare notizie provenienti da fonti autorizzate ossia dal comando supremo.
La sera del 10 luglio un acquazzone che diluviò per più ore aveva ingrossato il Fella ed inondato l’accampamento di un battaglione di fanteria nella campagna di Chiusaforte; sinchè i poveri soldati tutti inzuppati d’acqua dovettero lasciare le tende e ricoverarsi nell’abitato; ma le case erano già piene e mi fu chiesta la chiave della Chiesa parrocchiale. Feci spostare gli altari e portare il S.S. Sacramento in canonica e la Chiesa fu occupata dai soldati che vi passarono la notte … riparati dalle intemperie. L’indomani era festa e potei avere la chiesa libera alle ore 7. Lascio pensare in che stato si trovava il pavimento tutto insudiciato, i banchi pure e vi si sentiva un odore insopportabile.
Feci spalancare finestre e porte e chiamata una squadra di donne in meno di mezz’ora feci pulire in modo che alle otto, per precauzione per la funzione di riconciliazione della chiesa che consideravo profanata e celebrai la messa.”””
Questo diario prosegue poi in Valtellina (Sondalo) dove il pievano andò a curarsi in Sanatorio. Don Silvio Beorchia mori causa della sua malattia (tisi) nel 1917 a Udine..