CRONISTORIA DELLA VITA di CAPPELLARO Carlo Enrico fu Ambrogio e fu Del Ross Agostina = nato a PONTEBBA il 7 novembre 1899 = residente a PONTEBBA Fraz. Pietratagliata N°44
“”Frequentate le prime tre classi elementari a Pietratagliata, seguii il fratello Ladislao a Pontebba per frequentare le elementari sino alla 6°- sino al 1913 – avendo ripetuto la 4° elementare rimanendo poi a casa in aiuto ai genitori.
Il 24 maggio 1915 venne dichiarata guerra all’Austria nel mentre queste nazione era impegnata in guerra con la Russia e la Serbia. Era il momento opportuno, secondo i governanti, di togliere all’Austria il territorio di Trieste e il Trentino per rendere redenti quei popoli, siccome eravamo vicino al fronte con l’Austria, ci rifugiammo con la famiglia nella località POCCET dal PINUS lasciando vuota la casa.
Il 13 giugno 19I5 scesi, andammo profughi a Chiusaforte anche col bestiame, dove trovammo alloggio in una casa vuota a Casasola e ci sistemammo alla meglio io con i genitori, nel mentre il fratello Ladislao venne chiamato alle armi.
Mi ammalai e non in grado di essere di aiuto alla famiglia.
Nel 19I6 andai a lavorare come manovale a Raccolana con un’impresa costruzioni di cantieri per teleferiche per il fronte – indi passai a Peceit fraz. di Chiusaforte lungo Val Raccolana -ove mi assegnarono il compito di fornire la spesa per gli operai del cantiere a mezzo di donna col gerla – prelevando la spesa nella sussistenza militare di Chiusaforte. Finito quel lavoro passai con lo stesso impegno nel cantiere posto sulla strada nazionale a Chiusaforte, lato Dogna,- per fornire la spesa agli operai dislocati in montagna: Col Beretta per la costruzione della teleferica diretta al fronte di Val Dogna aiutato da un valtellinese. La strada veniva compiuta a piedi ed il resto delle giornate venivo adibito ad altri lavori nel primo cantiere della montagna.
Nel giugno 1917- non avevo ancora 18 anni,venni chiamato alle armi e destinato a Gemona quale coscritto lasciando soli i vecchi genitori.
Nell’ottobre 19I7— nel mentre infuriava la guerra su tutto il fronte verso 1’Austria, avviene lo sfondamento del fronte da parte di truppe germaniche con mezzi di gas asfissianti ed il fronte italiano verso CAPORETTO ed in seguito,su tutto quello sull’ISONZO non resiste ed ecco che anche la nostra compagnia dislocata ancora a Gemona viene destinata di rinforzo sulla montagna sopra Gemona non dando neppure il tempo di rifornire del vestiario pesante siccome pioveva da diversi giorni in via continuativa. Lassù ci adattammo alla meglio sotto le tende nel mentre ruggiva il cannone in fondo valle verso l’Isonzo . I nostri soldati non resistettero e avvenne lo sfondamento su tutto il fronte dell’Isonzo.
Ordine di ritirata. Si scende a Gemona a cambiare – vestito e passare poi di là del Tagliamento a costruire cavalli di Frisia presso il ponte di Braulins per impedire alla cavalleria tedesca di attraversare il fiume = continua a piovere incessantemente. E’ il primo novembre.
Il giorno 2 novembre ci incamminando vero Spilimbergo e lungo il percorso mi avvicinai a un soldato che sta va tagliando un pezzo di formaggio sul muretto, era mio cugino Giuseppe Cappellaro (cl .1898) e dette anche a me un pezzo di formaggio; ad a una vecchietta profuga consegnai il mio orologio con preghiera di riconsegnarlo a mia madre qualora l’avesse trovata durante le ritirata – Giunti a Cornino un ufficiale posto sulla strada ci ferma e ci invia verso il ponte della ferrovia con il compito di togliere le piastre laterali ai binari. Eravamo senza viveri; l’indomani mattina dopo aver, consumato una pagnotta in 12, mandammo un compagno per la fornitura di qualcosa da mangiare ma non fece ritorno; ripetemmo l’invio di altro soldato e neppure quello fece ritorno e così il terzo giorno decidemmo di rientrare nella nostra compagnia che neppure si sapeva dove si trovasse, ma arrivati sulla strada. trovammo il nostro comandante che ci rimproverò seriamente come fossimo dei disertori. Infine ci ordinò di ritornare a Braulins ove trovammo altri compagni ed anche da mangiare senza sale ed i] giorno seguente io fui assegnato al Btg. Merecantura (piemontese) indi salita la montagna arrivammo su una malga e la mattina, seguente venne l’ordine di scendere verso il Tagliamento ma quella ideai di tagliare l’avanzata ai tedeschi non venne ritenuta valida e ci incamminammo sulle strada che porta nella Valle di S. Francesco e scendiamo nel paese omonimo ma anche li trovammo le tracce che vi erano stati dei combattimenti e l’indomani i tedeschi già ci aspettavano al varco. Io scesi di corsa da un torrente per evitare il mitragliamento, dopo di che feci ritorno verso il paese sempre percorrendo il fondo del torrente e poi presi a salire la montagna priva di alberi sotto lo scrosciare degli srapnels; superata. la cima della montagna mi sembrò di essere a1 sicuro. L’indomani le truppe germaniche a cavallo già ci aspettavano sulla montagna lato Valle Tremonti ed abbiamo dovuto arrenderci e rimanere prigionieri. Scendemmo nel paese di Tremonti senza provviste di viveri e vidi un ufficiale superiore in piazza che rosicchiava una pannocchia per sfamarsi. Incolonnati e sorvegliati dai germanici ci incamminammo verso Spilimbergo. Lungo il tragitto caddi in una fossa di scolo ed in mio aiuto venne un paesano certo Cappellaro Carlo (Trabul) che mi aiutò e sortire dal buco, nel mentre, incrociammo truppe germaniche a cavallo con artiglierie ed a tarda sera, ormai notte passammo il Tagliamento e fummo ricoverati nelle chiesa di San Daniele e proprio in quelle chiesa ho consumai il 18° anno.
L’indomani mattina sempre scortati da germanici, passammo alla caserma degli alpini a Udine poi a Cividale ove passai le notte in un porcile, poi attraverso la montagna fino a S. Lucia di Tolmino ove ci ricoverarono in fienile. Il giorno appresso entrammo in Iugoslavia passando per Piedicolle e scendemmo a Scopie Loca; ultimo viaggio a piedi per poi essere trasportati oltre, col treno sino al campo di concentramento. Continuava a piovere incessantemente e pensai di mettermi a cavallo di un albero vicino ad un ruscello per riposare durante la notte in mancanza di ricovero.
In quella situazione non resistetti e mi avvicinai ad un gruppo di case e vidi dei prigionieri che stavano entrando in una legnaia avendo tirato via le tavole dalla parete e poco dopo venne il padrone, sgridandoli li cacciò fuori ed io allora mi sedetti sulla gavetta nella porta di una stalla sino alla mattina, quando vidi preparati molti carri per farci salire. Avevo le gambe che non mi reggevano e dissi ai compagni che se ne andassero poiché io non ero in grado di salire perché febbricitante di freddo, sennonché mi invase tutto il corpo di una ondata di caldo che mi sciolse le membra e salii anche io su un carro.
Lungo i] percorso verso la Germania ci fecero scendere per il bagno e finalmente raggiungemmo la stazione di Francoforte sull’Oder e passammo poi al campo di concentramento oltre il fiume, composto di grandi baracche e ci dettero per cena una grande porzione di minestra e finalmente mi persuasi di un trattamento sufficiente per restare in piedi ma la mattina successiva, con nostra grande sorpresa ci dettero una mezza gavetta di brodaccia e nulla di più, con dentro rape e qualche altra verdura tanto da costringerci ad andare in gabinetto continuamente ed in fretta. Alla funzione di interprete misero il caporale AZZOLA Costantino di PONTEBBA e ci consolammo sperando benefici almeno col rancio ma ciò, malgrado le sue insistenze, a nulla valse. La mattina seguente: via all’infermeria per la visita e così di seguito qualora ci fossero dei malati. Il letto era formato da materasso di carta ripieno di trucioli di legno messo trasversalmente per guadagnare posto e la notte per tenerci caldi ci si riuniva una accanto all’altro per stare caldi.
Io soffrivo ai piedi doloranti, alle dita le quali presentavano delle escoriazioni perché messi a dura prova durante il viaggio con le scarpe fradice e senza ricambio. Non riuscivo di notte a dormire dal dolore e chiesi visita medica con la speranza di ricovero all’ospedale ma non riuscii a farmi credere e ritornai piangendo dall’infermeria. Ripetei dopo qualche giorno la richiesta di visita medica all’infermeria e final mente mi accontentarono e mi fecero ricoverare all’ospedale formato da un gruppo di grandi baracche dotate di chirurgie. Questo fra Natale e capodanno del 19I7. Mi collocarono in una baracca con panche allineate e con pagliericcio ma con scarso contenuto di modo ché mi é sembrato di trovarmi sul nudo tavolaccio ma comunque in altro ambiente riscaldato dirette da un sottufficiale russo per le eventuali necessarie cure ma queste non esistevano ed alla sera un soldato si presentava chiedendo quello che si voleva: Magnesia- ferro-creosoto ecc.=
Alla mattina, non tutti i giorni – passava un maggiore medico italiano e dal retro toccava i nervi del collo e sentire le lagnanze dei prigionieri, ma purtroppo nessun ordine di cura, tanto mezzi non ne esistevano.
Una sera. si presentò 1’infermiere russo e mi fece togliere i calzini, alla vista dei miei piedi fece una smorfia e io non compresi il motivo, si trattava di inizio di cancrena poiché le punte dei piedi si presentavano scure, mi fece rimettere i calzini. Dopo cena. si presenta un sergente maggiore degli alpini certo Di Piazza e mi rimproverò seriamente il perché non avevo fatto presente le mie condizioni che inoltre ero talmente dimagrito per l’impossibilità. di dormire tanto mi facevano male i piedi e mi invitò a trasferirmi nella baracca dei feriti posta al di là dello steccato. Dopo cena mi incamminai per la strada con a margine la neve molto alta ed un freddo intenso con ai piedi un paio di scarponi ricavati dal taglio di stivali; entrai in una baracca ove si trovavano altri prigionieri italiani seduti attorno alla stufa e mi fecero sedere ma poco dopo mi trovai e letto poiché il caldo delle stufa mi aveva provocato svenimento e mi guardarono tutti impressionati talmente ero ridotto in misere condizioni,era una baracca di 24 letti, come infermiere c’era un caporale di Pavia, tale Barbieri. Era verso la fine di gennaio I917 – la mattina mi invitò a recarmi in chirurgia posta in una grande baracca a poca distanza. Entrai e mi misi subito vino alla stufa, posta vicino alla porta ingresso, ma poco dopo mi trovai all’esterno seduto su una panca poiché mi era venuto svenimento, cosa che mi capitava anche in seguito. Rientrato mi misero sul tavolaccio e chiedendomi nel contempo a quale reparto appartenevo e contemporaneamente mi cominciarono a togliere diverse unghie ai piedi ed una anche alla mano sinistra dopo di che passai da un infermiere che mi curò i piedi con benzina e strofinato con delle pezze tolte dai pacchi dei prigionieri pervenuti a mezzo della Croce Rossa. Mi fecero molto male poiché fra le dita mancava la pelle e mi dissero di ritornare il giorno appresso. I giorni successivi il calvario si ripeteva allo stesso modo affinché un giorno nel portarmi verso la chirurgia, vidi un ufficiale tedesco con due soldati italiani che portavano addosso dei cappotti di tessuto leggero con fascia gialla; mi fece segno di accostarmi e mi consegnò uno di tali cappotti togliendomi la mantellina ed io rimasi talmente male poiché la mantellina era l’unico indumento che mi teneva caldo che mi sedetti sulla neve piangendo. Mi rialzasi e mi incamminai verso la chirurgia per la solita cura alle dita. Rientrato nella mia baracca dissi al nostro infermiere che io non resistevo più a tale tortura poiché soffrivo troppo nel modo in cui venivo curato e lui cercò di darmi coraggio poiché fra giorni lui stesso avrebbe curato i suoi malati e così avvenne dopo due giorni. Aveva ragione poiché il suo modo di curarmi mi dette l’impressione che potevo resistere. Avevo fatto capire che se non fosse stato migliore rimedio mi avessero lasciato morire ed invece quell’infermiere ebbe tanta cura, che mi procurava la speranza della mia salvezza. Mi fasciava i piedi con della carta velina, che mi procurava un senso di caldo tanto da lenire il dolore e così avvenne per un lungo periodo.
Mi tagliarono i capelli e con mia sorpresa vidi che i capelli non tornavano a crescere bensì una lanugine come quella degli uccelli appena nati, io mi guardavo nello specchietto posto a lato della finestra dove vedevo in continuazione dei morti svestiti posti su un banco a lavabo a poca distanza dalla mia baracca ed ogni giorno passavano dinanzi alla mia porta diretti al cimitero, dandomi l’impressione che un giorno anche io avrei fatto la stessa fine.
Si avvicinava le buona stagione e mi portavo fuori dalla baracca a prendere un po’ di sole.
La buona cura e la primavera mi consolò al punto che verso i primi di marzo mi dettero il via al rientro in compagnia cioè al campo, diretto dall’interprete pontebbano AZZOLA Costantino.
Il giorno seguente mi ordinavano di recarmi all’infermeria del campo, presi sulle spalle il pagliericcio e mi incamminai,ma trovai uni dislivello nel terreno e caddi sotto il peso dei pochi chili che pesava il pagliericcio; mi rialzai e arrivai all’infermeria ove si trovavano due medici,uno tedesco ed uno italiano; mi fecero svestire ed alla vista di due macchie in corrispondenza delle scapole ed altre due in basso, ai lati delle reni, mi chiesero come erano state procurate ed io dissi che all’ospedale dovevo dormire in posizione supina dato il mio stato di dimagrimento e col pagliericcio vuoto o soltanto con poco residuo di trucioli. Erano tacche prodotte dello stiramento della pelle che ancora oggi porto nella schiena. Mi fecero delle analisi e fra i due medici intavolarono una discussione che dava rimprovero al modo di trattamento cui io ero stato sottoposto.
Il mio stato di salute mi dette l’impressione di rinascere sia per il più abbondante cibo sia per il trattamento, malgrado un giorno, come al solito, passando con la bacchetta per la sveglia,un certo MARINI di S.Daniele del Friuli, addetto alla direzione della baracca, assieme all’interprete AZZOLA, per la sveglia, mi dette un colpo sulla punta dei piedi che mi fece molto male poiché le dita non erano del tutto guarite. L’interprete AZZOLA mi fece comprendere che oltre 5 mesi anche in compagnia, non si sarebbe potuto resistere e mi consigliò di recarmi al lavoro, sia pure leggero ed ecco,che verso i primi di maggio 1918 in compagnia di un alpino del Btg. Dronero già al fronte in Val Resia sul monte Rombon, certo Maschio Giuseppe di Vigliano d’Asti, ci mandò in una fabbrica di corde di ferro a LANDSBERG sull’Oder. Il direttore della fabbrica cui ci siamo recati per le generalità, a sentire la mia età mi disse per tedesco “bist du freiwilich” (volontario)? Io dissi di No. Ci accompagnarono in un caseggiato ove si trovavano già una ventina di prigionieri russi, che lavoravano pure in tale fabbrica. Si dormiva assieme tutti in una stanza sotto la sorveglianza di una guardia zoppa per ferite riportate sul Piave. Il rancio veniva prelevato in una scuola ove veniva servito anche a cittadini tedeschi. Era und gran piatto di minestra buona e sostanziosa e qualche altra cosetta vicino in modo che in breve tempo ci siamo messi in carreggiata con le forze. Alla domenica veniva a trovarmi un medico vecchio che ci aveva preso in simpatia, essendo stato a Genova e gli piaceva fare delle conversazioni, aiutato dalla poca lingua italiana che ricordava. In compenso gli si offriva il caffè coloniale (vero caffè) e ci ringraziava di cuore poiché il caffè lassù si beveva solo fatto con il malto (orzo) si riposava abbastanza bene sia pure in branda alla marinara ed un po’ alla volta siamo risuscitati e ben visti in confronto dei prigionieri russi.
E venne il g.4 novembre 19I8 – armistizio e pace. Ci fecero rientrare in compagnia al campo di Franfurt A/O – dove un po’ alla volta vidi rientrare tanti prigionieri italiani dai campi di lavoro (purtroppo non tutti in seguito a morte, fra i quali anche un pontebbano certo MADILE molto più vecchio ed il cui figlio Gino mi chiese notizie ove era stato seppellito ed io risposi che non era in fossa comune mostrandogli la foto del cimitero di Francoforte bensì in fossa. Singola.
Cimitero di Breslavia – oggi in Polonia
In primavera, dal nostro campo di concentramento sono stati prelevati venti prigionieri fra i migliori 15 soldati, 5 caporali e 4 sottufficiali, messi in fila i prigionieri della nostra baracca, i tedeschi li fecero uscire dalle file e fecero rientrare i restanti. L’ufficiale disse loro di prepararsi per trasferimento senza spiegare il motivo. Alla sera partenza a mezzo ferrovia e soltanto dopo aver sorpassato Berlino li avvertirono che erano diretti a SPANDAU (prigioni). Alla mattina seguente un ufficiale disse loro – allineati nel cortile- che il provvedimento era motivato per rappresaglia, in quanto in Italia 5 prigionieri tedeschi erano maltrattati e perciò 5 italiani per ogni tedesco dovevano rimanere lì dentro fino a quando i tedeschi non venivano liberati ed inoltre disse loro che potevano scrivere a qualsiasi autorità italiana le loro condizioni di trattamento ed il motivo cui erano imprigionati e che per loro non veniva praticata la censura e se entro un breve termine non fosse pervenuta assicurazione della liberazione dei loro prigionieri venivano presi nei loro confronti altri provvedimenti più severi. Difatti, passato un mese, anziché due per cella, ne rimase uno solo e fu diminuito il tempo di ricreazione, anche il vitto cominciò a scarseggiare al punto che tale trattamento dava poca probabilità di sopravivenza. Scrissero alle maggiori autorità, senza distinzione, ma purtroppo nessuna risposta e la loro esistenza si tramutò in disperazione, sennonché la data di armistizio indi la pace, anche per loro venne il momento della liberazione e rientro in campo di concentramento, esausti e sfiniti dai patimenti sofferti in prigione, la più severa della Germania, ove erano rinchiusi anche diversi uomini politici e si potevano vedere le loro misere condizioni. Nella prigione, fra i più intellettuali era stata scritta una poesia che cantavano durante il viaggio di ritorno via mare e nella quale risultava il trattamento subito (poesia che io avevo fatto copia in quanto ebbi la fortuna di stare in mezzo a loro nel viaggio di rientro in Italia).
La sera de] 4 gennaio 1919, incolonnati ci incamminammo verso il treno posto poco distante dal campo, fuori del quale un ufficiale e due soldati germanici chiedevano i nomi dei prigionieri, cui dovevano consegnare delle buste paga e fra i quali ero anche io, mi consegnarono una busta con dentro 4 marchi e 85 pfenig, questi ultimi tutti di zecca, numerati con la scritta a tergo -stampata- FRANKFURT A/O di modo ché non potevano essere utilizzati fuori dal campo tanto che diversi prigionieri visto ciò, buttarono le buste sulla neve, nel mentre io, li conservai e qualche esemplare lo conservo ancora.
Durante questo viaggio di ritorno in Patria, non ebbi la fortuna di avere in compagnia dei miei paesani, perché fatti rientrare per ferrovia.
A notte tarda arrivai a STETTINO – porto di mare sul mare Baltico e ci fanno salire sulla nave assieme ad altri prigionieri di altre nazioni. Si trattava di passare la zona minata sul mare e ci fecero portare tutti sulla tolda muniti di salvagente, un soldato fece presente che se qualche mina fosse scoppiata, anche il salvagente non riusciva a tenerci a galla, il nostro ufficiale gli disse di tenere i] salvagente stretto sotto le ascelle per ogni eventualità e la nave infine si mosse col suono della campana al passaggio della zona minata. Passato il Baltico e attraversata la Danimarca entrammo nel mare di Nord sino in Normandia
Ci sbarcarono a CAORBURG città della penisola francese della Normandia e ci collocarono in baracche poste sopra il porto da dove si potevano vedere le navi alla fonda. mimetizzate. Alla mattina seguente all’arrivo ci misero in fila per la rivista da parte di un sottufficiale italiano ed i primi tre della fila, casualmente vennero chiamati i nomi di: Cappellano – Capellaro e Capeller, il sottufficiale ritenne una presa in giro ed aprì il braccio in segno di rimprovero ma purtroppo era la verità, il mio vicino era di Alba( Torino) il seguente di Lucca confermato anche da un nostro compagno del campo concentramento.
Nel pomeriggio ci fecero salire in treno per l’Italia –finalmente – giunti a Torino il Cappellano scese poiché era arrivato presso il suo paese, il resto del convoglio prosegui sino a Lucca ove sott’ostammo a un breve interrogatorio per sincerarsi che non vi erano dei disertori.
Avevo in tasca 300 marchi che il fratello Antonio residente in Romania mi aveva fatto pervenire a Landsberg avendogli fatto pervenire uno scritto per tedesco, la mia situazione – soldi che io avevo fatto cambiare e mi dettero modo di arrangiarmi per quanto avessi bisogno. La sera stessa ci inviarono alla nostra destinazione su un treno merci ed io scesi a BOLOGNA ove avevo i genitori profughi in Via Castiglione 90. Arrivai all’alba che era ancora scuro e mi incamminai alla ricerca dei genitori; era troppo presto e ho creduto non disturbarli ed intanto vidi un bar ove si intravedeva la luce accesa a beneficio dei carrozzieri ed entrai; chiesi un caffè corretto ed in seguito altri ancora in modo che compresi che mi avevano fatto più male che bene perché non abituato al caffè coloniale e poi la correzione ad ogni portata. Alla 7 circa decisi di suonare il campanello della casa di abitazione dei genitori alloggiati proprio lì di fronte e si presentò mia madre tutta sorpresa ed entusiasta nel vedermi ritornato e così pure il padre e i miei parenti con loro abitanti. Mi misero a letto per riposare dopo di che mi spogliai per la pulizia e mia madre alla vista di quei quattro segni nella schiena si mise a piangere dicendo che non potevano essere che il risultato delle bastonate. Gli feci capire che ciò era dovuto al motivo di aver dormito supino sui tavolacci all’ospedale senza contenuto del pagliericcio. Si persuase poco ma poi comprese il mio racconto. I miei 15 giorni di licenza li passai a Bologna recandomi con mio padre a vedere la città raccontandoci a vicenda, quanto era avvenuto durante la mia assenza e loro profuganza. Proseguii – al termine della licenza – su GEMONA, mia sede di Battaglione ci trovammo con diversi compagni di sventura. Trascorso un certo periodo a Gemona mi destinarono,assieme ad altri compagni, sulla linea d’armistizio verso la Jugoslavia ed in treno raggiunsi S. Lucia di Tolmino e di là a piedi sino a Tolmino aggregandomi al Battaglione Val Adige, dopo pochi giorni mi mandarono al Comando del 2° Raggruppamento Alpini, con sede in piazza a TOLMINO e il mio collega CEDARO Giuseppe alla fureria del Comando ove rimasi alle dipendenze sino al congedo. I vecchi venivano mandati gradualmente in congedo sicché le mie prestazioni divennero utili al punto di dirigere l’ufficio dei sottufficiali addetti al Comando tanto che mi dettero la nomina di Caporale.
Si avvicinava Pasqua 1919 ed il fratello Ladislao mi mandò un vaglia telegrafico di L.60 e l’Ufficio Posta1e mi avvertì che non poteva esser pagato, in quanto non autorizzati a tale sistema di trasmissione e così passai Pasqua andando a visitare i posti dove si erano rifugiati austriaci sul fronte dell’Isonzo, senza neppure presentarmi al pranzo di mezzodì ed i colleghi mi rimproverarono e volevano saperne il motivo, non volevo spiegarmi, al punto che mi fecero dire la ragione: “ero senza un soldo in tasca”. Il compagno Cedaro Giuseppe addetto alla fureria. mi consegnò allora. in prestito L.50, al fine che anch’io potessi partecipare al pagamento di qualche spesa fatta assieme ai compagni, ciò bastò per darmi coraggio per stare in loro compagnia.
Il comando Raggruppamento comprendeva 6 Btg, di Alpini.= “3 piemontesi e 3 lombardi ” . In maggio ci trasferimmo a PIEDI COLLE sito al confine fra Italia e Jugoslavia, nel mentre le truppe alle dipendenze erano dislocate sulla linea armistizio, verso i nuovi confini. Giunto a Piedicolle mi si presentò alla vista un grande crocifisso attaccato all’esterno della chiesa, di fronte alla sede del comando e mi rammentai di avere visto tale figura al passaggio nel novembre1917 prigioniero diretto in Germania. Seppi infine che fra le truppe dislocate in montagna vi era pure mio cugino Giuseppe Cappellaro il quale venne sorpreso da una valanga
il ché, purtroppo a mio giudizio, fu causa di grave male alle gambe nel 1921 provocandone il decesso . Un giorno vidi passare un soldato di Dogna diretto a Tolmino = certo Emilio Ceccon = per essere adibito alla ricerca dei resti dei soldati morti sulle montagne adiacenti a Tolmino e per riportarne i resti al cimitero, sennonché giunto a Tolmino, venne adibito alle cucina verso le caserme di quel paese e per sostenere le marmitte adoperò dei tubi di ferro, che non appena acceso il fuoco scoppiarono e perse la vita dilaniato dallo scoppio – erano tubi di esplosivo che venivano adoperati per far saltare i reticolati. In autunno rientrammo a Tolmino indi a Caporetto, dove si stabilì il Comando del Raggruppamento nella Villa Moimir, sotto la guida del generale PEZZANA Girolamo seguiti del trasferimento delle nostre truppe nei dintorni di Caporetto: a sinistra dell’Isonzo verso il Monte Nero. Non era finito ancora il calvario e verso il 20 dicembre 1920 venne ordine di trasferirsi verso Fiume e precisamente a CASTUA sopra Abbazia Mattuglie, per provvedere a far sgomberare FIUME, occupata da truppe italiane arbitrariarante con al comando Gabriele D’ Annunzio, il quale si era trasferito in tale città con delle truppe volontarie, in prevalenza arditi, dislocati vicino a Monfalcone nel 1919. Si trattava di far sgomberare con la forza la città e pertanto nella periferia della Città di Fiume furono dislocate le nostre truppe.
La sera della vigilia di Natale del 1920 mi trovavo in ufficio solo – entra il Generale Pezzana e mi disse: “domani mattina alle ore 3.30 sveglia” ed io comprendendo di ciò che si trattava, gli dissi “Domani Sig. generale é il giorno di Natele” e lui,aprendo le braccia mi disse: “Speriamo non sia vero”. Alla. mattina. trovai l’ordine di rimanere al Comando e la sera stessa di Natale 1920 mi avvertì che l’ordine rimaneva per la stessa ora del giorno 26.
La mattina del 26 dicembre – a seguito degli ufficiali, scortato da due soldati addetti a1 comando, alla periferia di Fiume – in una scuola – ove venne stabilito il Comando, dopo poco si sentì a crepitare le mitragliatrici ed anche dei colpi di cannone, in quanto le truppe di Fiume ne erano provviste, cominciò la guerra fra le due parti: cioè fra le nostre truppe e quelle di D’Annunzio dislocate entro la città, provocando morti specialmente fra le nostre truppe, che purtroppo pure avendone i mezzi non potevano adoperarli per non provocare la rovina della città e nel mentre le truppe d’Annunziane sparavano dalle finestre delle case poste alla periferia della città. La corazzata Andrea Doria verso le 15 del giorno 29 sparò una cannonata colpendo il palazzo posto sul moli, provocando una squarcio al primo piano del palazzo, nell’intento di colpire il comando di Dannunzio ivi piazzato, ma purtroppo a quell’ora il Comando Dannunziano non si trovava nella sua sede. Il comandante della nave aveva ordine di eliminare l’arbitraria occupazione della città distruggendo il Comando delle truppe irregolari. Nel contempo giunse una telefonata al Generale Pezzana che il Colonnello Gerbino – che comandava il primo gruppo verso il mare, era ferito gravemente da una scheggia di granata. Si rivolse verso lo stato maggiore del nostro Comando comunicando l’avvenuto, indi chiamò al telefono il Comandante della 52° divisione dalla quale si dipendeva – con sede ad Abbazia, dicendo quanto era avvenuto e facendogli presente che avrebbe disposto, con ordine alle nostre truppe, di sospendere il fuoco, difatti tale ordine venne dato ai comandi delle nostre truppe dislocate attorno alle città, con la conseguente cessazione del fuoco fratricida a tal fine di provocare I’armistizio e difatti entro la fine di gennaio avvenne l’evacuazione delle truppe che occupavano la città di Fiume e cessò quindi l’ostilità e anche il nostro comando di Raggruppamento fece ritorno a CASTUA.
Durante il periodo che le nostre truppe circondavano la città, i dannunziani permisero alle truppe del Battaglione Vestone di entrare in città, facendo apparire le cessazione delle ostilità indi la resa, ma purtroppo tale fatto era un inganno e le truppe nostre considerate prigioniere, gli ufficiali posti su una nave al molo e maltrattati con gesti osceni attraverso le finestre da parte di colleghi passati dai nostri reparti dislocati in quelle zone di confine prima del nostro intervanto (ai loro). Io non ho avuto modo di visitare la città di Fiume rimanendo liberi di darsi finalmente a divertimenti essendo in periodo di carnevale.
Il giorno 21 aprile 1921 mi mandarono in congedo rimpiazzati da soldati della classe 1900 e venni a casa finalmente dopo un periodo di naia di 47 mesi trascorsi sotto le armi.
Questi avvenimenti,secondo il mio parere vennero creati da ambizioni politiche nonché da uomini al potere ed anche da uomini soggetti agli ordini del governo cioè militari ai comandi di Grosse unità e furono la causa di nuovo spargimento di sangue fra fratelli dopo due anni dal 4 novembre data dell’armistizio e della dichiarazione della pace.
All’atto del congedo neri ebbi modo di salutare il mio generale Pezzana perché si trovava ad Abbazia dal comando Divisione. Lasciai i miei saluti e ringraziamenti. Dopo qualche giorno che mi trovavo a casa mi pervenne una sua lettera di saluto raccomandandomi di avvicinarlo se nella vita privata lo dovessi incontrare e di volermi aiutare di qualunque cosa avessi bisogno nella vita privata e mi chiuse le lettera con queste parole,dopo aver espresso il mio comportamento durante il periodo cui stetti alle sue dipendenze “Non illuderti degli uomini abbia fede in Dio” suo affezz. generale PEZZANA Gerolamo””. Difatti verso il 1938 nel mentre ero in servizio ferroviario – lo cercai ed allora era a capo del Corpo Armata di Alessandria e mi fece pervenire le risposta essendomi rivolto direttamente alla Direzione Generale, mi fece pervenire le risposta dalla quale potei rilevare che ero il primo in graduatoria del Compartimento di Trieste designato per le promozione ed Aiutante (l° grado amministrativo). Lo ringraziai e con dispiacere non ebbi più la fortuna di sapere altre notizie di lui.
Durante una mia visita ad amici a Firenze ebbi modo di conoscere un certo Quintilio, il quale mi invitò assieme agli amici Del Corso di recarci in casa sua, sita in Via Bonaini N° 4, per bere un bicchiere del suo possedimento avvertendoci che era molto forte. In un angolo, in un armadio vidi delle ceramiche orientali e mi mostrò qualche esemplare facendomi notare attraverso la luce il fondo dei piatti che mostrava delle giovani vestite in “chimono”, dicendoli che durante le sua vita marinara era stato anche in Giappone ma che negli ultimi anni si era piazzato con la sua nave nel golfo del Quarnaro con l’Andrea Doria”, difatti osservai una grande foto di un ufficiale di marina con delle grandi strisce bianche nella giacca. Mi face capire che si trovava nel golfo del Quarnaro e che proprio era stato lui il comandante,che aveva ricevuto ordine di sparare alla sede del Comando d’Annunziano nel palazzo posto sul molo di Fiume alle ore 15 del g.29/12/I920 per ordine del Comando Superiore, al fine di eliminare il perdurare dell’arbitraria occupazione della città. Gli feci presente che io ero in possesso di documento (foto) del danno che aveva arrecato, cioè lo squarcio alla parete frontale del palazzo ove era scoppiata le granata, cioè proprio nella stanza dove si trovava la sede del Comando di D’Annunzio, ma è risultato che lui non si trovava, proprio in tle sede in tale occasione. Cercai in un cassone in soffitta ove erano riposte tante scartoffie e potei recuperare solo tre foto di D’Annunnzio, una delle quali regalai al Sig. Quintilio in occasione di altra venuta a Firenze, con grande sua soddisfazione nel mentre sperava di vedere anche quelle della cannonata. Mi fece comprendere che non era lui che aveva sparato bensì il suo marinaio addetto ai cannoni e che la nave doveva trovarsi a 7 Km. di distanza, onde evitare di essere colpito da torpedini auto comandati.””